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E Zaccaria ride, si sbraca. Zaccaria è seduto di fronte a me e Cesca, parla di sesso estremo. Parla di quella sera in cui è fuggito da un letto, uscendo dalla stanza con il viso coperto, come se stesse scappando dopo aver commesso una rapina, come se i ragazzi non potessero dire di no. A Cesca il sesso non le interessa, non l’ha mai fatto. Sarà che non ha mai trovato quella giusta, sensibile, aperta al dialogo. Io resto zitta e li guardo, penso a quella volta in cui mio padre mi ha dato del diavolo. Avevo otto anni e avevo ficcato le mani nelle mutandine. Sarà che cercavo di scoprirmi, che non avevo altro da fare. Sarà che volevo acchiappare la farfallina che mai si è presa la briga di volare.
E poi penso a Teo. Una volta abbiamo fatto l’amore e ho pianto. Sarà che non apprezzavo il mio corpo, o che le sue braccia non mi rassicuravano. Sarà che avevo fretta di amare, che mi sentivo in ritardo. O forse, in fondo, con lui era più semplice parlare, guardarlo fumare una sigaretta quando ancora i nostri corpi erano lontani, in attesa di una stanza vuota. Almeno non sono diventata come mia zia Gertrude. Un giorno, a sedici anni, si è ficcata un ago nella mano, ha aperto il palmo e ha tracciato con un filo rosso la linea dell’amore. Poi la sera ha donato il corpo a un estraneo, la mattina dopo ha indossato un abito nero e l’ha sposato. Erano altri tempi.
E mi domando se mi conviene amare, sentire le cosce calde, il petto che trema, le corna spuntarmi in testa. Zaccaria ride perché si vergogna, si è alzato ed è andato verso la finestra. Cesca parla ma guarda altro, fissa lo spioncino della porta. Io faccio finta di nulla, sistemo il tavolo. Forse era meglio non parlarne, non ricordo nemmeno chi ha iniziato.